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Archive for the ‘ricordi’ Category

“Il mare non sa niente del passato. Sta lì, non ci chiederà mai di spiegargli nulla. Le stelle, la luna, stanno lì, e continuano a illuminarci, brillano per noi. Che cosa vuoi che importi, a loro, quello che è successo?   Ci fanno compagnia e ne sono felici.”

da La Cattedrale del Mare di Ildefonso Falcones

Barcellona ti incanta, ti rilassa, ti stupisce. C’è un angolo per ogni stato d’animo, uno spazio di espressione per ciascuno, indistintamente.  Il mare e il vento ti aprono all’orizzonte, e pare di aprirsi all’infinito.

Ogni angolo parla ed evoca dolori e passioni. I suoi quartieri, le ombreggiate piazzette del barrio gotico, vere oasi di pace, l’intrico di viuzze del Raval, piccola Babele di lingue, religioni e tradizioni. I frammenti del passato, le tombe romane, il vecchio porto, ti ricordano la storica vocazione di questa città,  prima accampamento romano e poi luogo di intensi scambi mercantili.

I promontori, le dolci colline del Montjuic, il più irto Tibidado, dominano la città per proteggerla e riservano meravigliose scoperte.

Voglio tornare spesso in questo paradiso di sapori, profumi, colori e brusii…Barcellona cara, da sempre meta di amanti e giovani avventurieri, metropoli laboriosa e creativa, mi auguro possa conservare a lungo la tua soave allegria e autentica bellezza!

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Il “quartiere delle Gabbie” era molto peggio di come me lo ero immaginato. Lo conoscevo attraverso alcune fotografie di un fotografo celebre e pensavo di essere preparato alla miseria umana, ma le fotografie chiudono il visibile in un rettangolo. Il visibile senza cornice è sempre un’altra cosa. E poi quel visibile aveva un odore troppo forte. Anzi, molti odori.

Da Notturno indiano di Antonio Tabucchi

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Sintra è uno dei posti più belli del Portogallo. Di solito la si visita dopo aver già fatto il giro di Lisbona, per fare una gita fuori porta alla ricerca di un po’ di frescura. Per me è stata una vera rivelazione, la scoperta di un luogo da favola, dove il tempo si è fermato… dunque favoloso! Ecco perchè è stata dichiarata patrimonio umano dall’Unesco…Si trova soltanto 28 km a nord-ovest di Lisbona, ed è facilmente raggiungibile col treno, dalla stazione Rossio. Qui si respira un’atmosfera tutta particolare e definirla romantica sarebbe un po’ riduttivo. Lord Byron l’ha definita “paradiso verde”, e non a caso qui scelsero di insediare la propria residenza estiva i sovrani del Portogallo. Camminando per un viale alberato si raggiunge il Palácio Nacional da Pena, architettura incredibile per l’aspetto iperdecorato in stile bavarese-manuelino. Nella parte centrale della città vecchia si può ammirare l’altro palazzo di rilievo, il Palácio Nacional de Sintra.

Ricordo con particolare piacere le fontane moresche, dove più volte ho cercato ristoro, coperte di piastrelle di ceramica e decorazioni moresche. L’associazione di ricordi mi riporta dalle immagine stampate nella memoria dei palazzi, al sentiero fatto a piedi tra i singulti di un indomabile singhiozzo, ai relativi sforzi e tentativi di farmelo passare della mia compagna di viaggio, Chiara, fino alla Casa da Sapa, un’antica pasticceria, piccolissima e frequentatissima, celebre per le queijadas ( tortine di formaggio e cannella), dove il singhiozzo è definitivamente svanito. Ubi major… .

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Ogni angolo della Maremma riserva preziosi doni. E questi cambiano a seconda che ci si sposti da nord a sud o dalla costa verso l’interno. Ogni dono sorprende e consola per la sua bellezza. La Natura, le antiche vestigia, tutto suscita stupore e meraviglia, facendoci respirare l’atmosfera dell’antica civiltà contadina.

Duomo di Massa Marittima

Capiscono bene lo spirito di queste terre le centinaia di tedeschi che ogni anno, in stagioni diverse, le scelgono come meta privilegiata delle proprie vacanze. Spesso capita di incontrare una famiglia tedesca, con biciclette al seguito, nei punti meno frequentati dell’entroterra e nelle calette più sperdute. E incontrarli è garanzia di un luogo protetto, ancora poco esplorato. Ecco perchè dovremmo pedinarli questi tedeschi!!!

Castello di Scarlino

Percorrendo la cosidetta Alta Maremma, ci sono molti paesi – alcuni noti, altri meno – in cui vale la pena (anzi “vale la gioia!”) fermarsi, per respirarne gli odori e farsi contagiare dal loro antico silenzio … almeno fin quando non viene interrotto dal rumore di ferraglia dell’Ape di qualche contadino locale, suono comunque sacro…

A volte penso ai contadini come a degli eroi, che, mentre  praticano col proprio sudore il culto della terra, si consacrano unici e veri artefici della bellezza dei campi appena arati e dei vigneti.

Nell’interno, nella parte più selvaggia, dove è facile incontrare i cuccioli di cinghiale con la loro pericolosa madre, ricordo con particolare piacere alcuni scorci di Tatti, Scarlino, Roccatederighi, Tirli, Caldana e la sua cattedrale su disegno (pare) di Michelangelo, infine Massa Marittima, per dare una sbirciata all’albero della fecondità,  l’affresco del 1265 recentemente restaurato che raffigura un albero da cui pendono, come enormi frutti, decine di falli davvero realistici!

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Uno dei posti più suggestivi dell’Andalusia è senz’altro Ronda, piccolo comune di circa 37.000 anime che conserva in parte la sua antica struttura araba. Si erge a strapiombo a 200 metri di altezza, ed è anche nota per avere la più antica Plaza de toros per lo spettacolo della “corrida”, famosa anche per la sua rinomata scuola di equitazione.

Da questo luogo magico, sospeso nel cielo, sono passati Ernest Hemingway, amante dei tori, Rainer María Rilke, che definì Ronda “la città sognata”. Rilke, ispirato dal clima e dall’altitudine di questo luogo, scrisse “L’epistolario spagnolo”.

In un bar angusto e poco illuminato, dall’aspetto non troppo rassicurante, ma consigliato da amici, ho potuto assaporare le tapas più originali di tutta l’Andalusia, come i crostini con uova di quaglia e pancetta, gli spiedini di pollo aromatizzati da un mix di spezie, le verdure in inzimino.

Dell’Andalusia, oltre ai palazzi arabi, i paesaggi brulli, porto con me il sapore vellutato del salmorejo, una zuppa fredda, tipica della zona di Cordoba, a base di pomodoro, aglio, pezzi di pane raffermo, olio, aceto, sale, il tutto frullato con frullatore a immersione. La sua consistenza è quella di una salsa, più liquida o cremosa a seconda delle preferenze; il piatto viene spesso servito freddo e decorato con spicchi di uovo sodo, pezzetti di jamón serrano (prosciutto crudo stagionato) ed un filo di olio d’oliva. Come il gaspacho, il salmorejo ha un aspetto rosa-arancione, ma è molto più denso, in quanto contiene grandi quantità di pane. L’altro piatto tipico, che ho solo potuto/voluto assaggiare dal piatto di un compagno di viaggio è il rabo de toro, la coda del toro, in effetti molto saporita!

Ronda è una tappa necessaria dunque per chi affronta il classico giro dell’Andalusia, dopo (o anche prima!) aver visitato Siviglia, Granada, Malaga, Cordoba….

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Da Afrodita. Racconti, ricette e altri afrodisiaci

Una notte del gennaio 1996 sognai di tuffarmi in una piscina colma di riso al latte (…) in cui nuotavo con la grazia di un delfino. È il mio dolce preferito – il riso al latte, non il delfino – tanto che nel 1991, in un ristorante di Madrid, ne ordinai quattro porzioni e poi una quinta, come dessert. Le mangiai senza batter ciglio, con la tenue speranza che quel nostalgico dolce della mia infanzia mi aiutasse a sopportare l’angoscia della grave malattia di mia figlia. Né la mia anima né mia figlia ne trassero giovamento, ma nella mia memoria il riso al latte rimase associato al conforto spirituale. Nel sogno, invece, non c’era nulla di sublime: mi tuffavo e quella crema deliziosa mi accarezzava la pelle, scivolava tra le mie pieghe e mi riempiva la bocca. Mi svegliai felice e mi gettai su mio marito prima che il poveretto potesse rendersi conto di quello che stava succedendo. La settimana successiva sognai che posizionavo Antonio Banderas nudo su una tortilla messicana, lo condivo con guacamole e salsa piccante, lo arrotolavo e me lo mangiavo con avidità. Questa volta mi svegliai terrorizzata. E dopo poco sognai… beh, è inutile proseguire; vi basti sapere che quando raccontai a mia madre queste nefandezze, mi consigliò di andare da uno psichiatra o di rivolgermi a un cuoco. Ingrasserai, aggiunse, e così mi decisi ad affrontare il problema con l’unico rimedio che conosco alle mie ossessioni: la scrittura.
Dopo la morte di mia figlia Paula, trascorsi tre anni a tentare di esorcizzare la tristezza con rituali inutili. Per me furono tre secoli, durante i quali avevo la sensazione che il mondo avesse perso i colori e che un grigio universale si stendesse inesorabile sulle cose. Non so ricostruire con precisione il momento in cui ricomparvero le prime pennellate di colore, ma quando ripresi a sognare di mangiare, capii che ero prossima alla fine del lungo tunnel del dolore, e che stavo per riemergere dall’altra parte, in piena luce, con una voglia incontenibile di tornare al cibo e ai giochi amorosi. E così, poco a poco, chilo a chilo e bacio a bacio, prese corpo questo progetto.
Per la parte che mi spetta di questo lavoro di squadra, la ricerca è necessaria. Non mi sto lamentando. Nella vasta bibliografia che ho a portata di mano ho scoperto un sacco di cosette che non avrei mai immaginato… Ho scritto queste pagine in una stanza della mia casa perché all’inizio non volevo che le pile dei libri con le esplicite illustrazioni facessero bella mostra di sé nel mio ufficio sotto lo sguardo dei miei virtuosi collaboratori e dei visitatori occasionali. Dato che non desideravo nemmeno esibire quel materiale in casa, lo tenevo sotto chiave, ma a mano a mano che familiarizzavo con tutte le posizioni possibili e impossibili per fare l’amore, così come con ogni sorta di espediente, filtro, balsamo, lozione, spezia, erba, droga, piuma di struzzo e caramella dalla forma fallica che il mercato offre, i libri iniziarono a circolare liberamente da tutte le parti e i miei nipoti, creature innocenti ancora lontane dall’età della ragione, giocavano a farci delle costruzioni, come se fossero mattoni perversi di una nuova torre di Babele. Dopo averli avuti tanto sotto gli occhi, non c’è più niente che possa turbare né me, né i miei nipoti.

Consolazione di riso al latte

Ti ricordi il mio sogno del riso al latte all’inizio del libro? Non riesco a immaginare un dolce altrettanto sensuale… Questa ricetta è per otto persone, ma mi sembrerebbe un crimine cucinarne meno. Io posso divorarlo tutto quanto senza battere ciglio e non vedo perché dovrebbe essere diverso per te, lettore o lettrice. Se proprio dovesse avanzarne un po’, puoi conservarlo in frigorifero o meglio, se non ti manca il buon umore, ricoprire il tuo amante dalla testa ai piedi con i lussuriosi chicchi per poi leccarli con dedizione certosina. In un caso come questo, si può decisamente chiudere un occhio sull’eccesso di calorie.

Riso al latte

Esecuzione:
Lascia a bagno il riso nell’acqua tiepida per mezz’ora. Scolalo. Fallo bollire nel latte con il bastoncino di cannella fino a quando sarà morbido (più o meno per mezz’ora). Unisci lo zucchero e la scorza di limone e lascia bollire piano a fuoco basso, mescolando di tanto in tanto per non farlo attaccare fino a quando si sarà asciugato (su per giù un’altra mezz’ora). Mettilo in un piatto di portata, lascialo raffreddare in frigorifero e prima di servirlo copri con un velo di cannella in polvere.

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Qualche giorno fa un vicino di casa, complice qualche bicchiere di vino, mi ha raccontato alcuni aneddoti della sua infanzia nelle capagne sull’appennino tosco-emiliano…si è quasi commosso raccontandomi che ogni volta che mangia una fetta di castagnaccio, o un neccio, riaffiorano alla sua memoria i gesti lenti di sua madre che spalmava l’impasto di farina di castagne, acqua, uvetta e pinoli su due grandi foglie di castagno, in modo da aromatizzare e al tempo stesso lasciare la loro impronta sulle deliziose frittelline… che dolce ricordo!

Il castagnaccio è una delle prime ricette che mi ha insegnato mio padre, semplice e veloce…prima si mescola la farina con l’acqua, schiacciando le palline di farina che oppongono resistenza, poi si aggiunge all’impasto cremoso l’olio, i pinoli, un pizzico di sale e l’uvetta, infine va oliata la tortiera prima di stenderci l’impasto, decorato con altra uvetta, noci e il rametto di rosmarino spezzettato… il tutto si mette in forno per una mezzoretta a 180 gradi….recentemente ne ho mangiata una versione arricchita di mele…buonissima!

Ingredienti per 4 persone

  • farina di castagna 500 gr
  • 100 gr di gherigli di noci o 100 gr di pinoli
  • 6 cucchiai cucchiari di olio di oliva
  • 5 bicchieri di acqua
  • un rametto di rosmarino
  • un grosso pizzico di sale fine
  • 80 gr di uvetta

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Spesso capita di associare il ricordo di un viaggio, di un’esperienza vissuta ad un odore o ad un sapore, ma ancor più spesso capita l’esperienza inversa, di sentirci improvvisamente trascinati nel flusso dei ricordi, nel bel mezzo di un pranzo o di una merenda sotto la tacita induzione delle papille gustative.

Ricordo benissimo il giorno in cui, in IV ginnasio, la professoressa di letteratura francese ci lesse il brano, famosissimo, La ricerca del tempo perduto in cui Proust racconta come un giorno,  mentre assaporava una tazza di tè con alcuni dolcetti, le petite madeleine, gli fossero affiorate alcune immagini dell’infanzia…e all’improvviso si fosse ricordato di quando sua zia Leonie lo svegliava, tutte le mattine, offrendogli una tazza di tè con delle madeleine.

A distanza di anni un particolare sapore è capace di risvegliare ricordi, secondo un processo irrazionale incontrollabile (la cosidetta “memoria involontaria”)… a me capitano spessissimo questo tipo di associazioni…e per voi qual’è la vostra piccola madeleine?

Da la Recherche di Marcel Proust:

[…] in una giornata d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po’ di tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d’avviso. Ella mandò a prendere uno di quei biscotti pienotti e corti chiamati Petites Madeleines, che paiono aver avuto come stampo la valva scanalata d’una conchiglia di San Giacomo. Ed ecco macchinalmente oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d’un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzetto di Madeleine. Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di biscotto toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M’aveva subito resi indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso in cui agisce l’amore, colmandomi d’un’essenza preziosa […].

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